Gli stereotipi nella comunicazione (di Carnevale).
Stavo passeggiando con l’Amata in un quasi-primaverile pomeriggio di San Valentino per il centro di Monselice – dove sono conservate parte delle reliquie del santo stesso, per chi non lo sapesse – e le vie erano piene di bambinetti e bambinette in costume di carnevale – si usa così, a Monselice.
Genitori più o meno riluttanti accompagnavano i figli in parata, e ho potuto osservare questa cosa:
quando i genitori sono costretti ad accompagnare i figli in costume, e devono quindi un-minimo agghindarsi a loro volta, anche solo con un dettaglio, un’applicazione sopra al giaccone, un cappello buffo o una parrucca, giusto per presenziare in spirito alla festa- le donne hanno sempre la mascherina in pizzo traforato vedo-non-vedo, atmosfera soffusa e fumosa, posa di gatta contro un pilastro della grande sala, concettualmente un vestito da sera con lo spacco vertiginoso, musica elettronica però in secondo piano e ammiccamenti e scambi di coppia.
Gli uomini? Occhiali giganti da coglione.
Una domanda: quanto servono gli stereotipi nella comunicazione, nella scrittura, nei contenuti? Se ne potrebbe fare a meno, come vorrebbero gli isterici del politicamente corretto, o ancora possiamo piegarli alle nostre necessità di comunicazione?